Interpellato su quanto il ritorno di Trapattoni avrebbe giovato alle sorti di una Vecchia Signora a digiuno di scudetto da troppi anni, Enzo Biagi rispose con le parole dettegli decenni prima dall’interprete tedesco di Mussolini. “Dia retta a me, non si ritorna mai dove si è stati felici”. Per onor di cronaca, qualche rigo più su, il giornalista bolognese aveva definito Pagliuca e Mancini come “le rose che non colsi”, riferendosi alla sua disattenzione verso i due astri nascenti del calcio italiano durante i loro trascorsi in maglia felsinea. Le pagine che riportavano l’intervista erano quelle della rivista ufficiale dell’Inter, e quelle riviste erano l’unico canale, cartaceo peraltro, per “saperne di più”.
Nostalgie a parte, la previsione sul Trap, scevra delle malignità che di lì a poco avrebbe sovente caratterizzato un certo modo di intendere l’attività del giornalista, si rivelò azzeccata, eccezion fatta per una coppa UEFA vinta con relativa facilità ed una coppa Italia sfiorata contro l’emergente Parma targato Nevio Scala. Teorema puntualmente confermato dalle minestre riscaldate targate Sacchi e Capello, e Lippi sulla panchina azzurra. Talvolta però si è obbligati a ripercorrere a ritroso quel percorso. Obblighi decisi dagli Dei del calcio, le cui illogiche logiche proiettano i professionisti della pedata verso ritorni inaspettati, talvolta sotto casacche diverse. Talvolta in tempi così brevi tali da creare surreali atmosfere, quasi oniriche, percepite dal calciatore e trasmesse nell’animo dei tifosi e sugli spalti. Quasi in una sorta di condivisione collettiva che unisce rettangolo verde e gradinate. Diverse prospettive sulla sfera, chi calcia e chi guarda trepidante.
Non credo di esagerare se penso a Renato Olive, ed al mio stato di sbigottimento nel vederlo indossare una casacca diversa dal biancoazzurro federiciano, su un campo la cui mediana fino a sette giorni prima era il suo habitat naturale. Una settimana prima si era reso protagonista dell’ennesima incursione vincente, stavolta in area granata all’Arechi, contribuendo ad un prezioso pareggio contro quella Salernitana che un anno dopo avrebbe giocato in serie A. Una settimana dopo ebbi prova che gli Dei del calcio si divertano spesso a giocare con gli animi dei tifosi, lanciando i dadi sui cui spigoli non sono riportati cerchietti, ma i nostri sentimenti. Quel primo Febbraio del 1998 i dadi decisero che un senso di sbigottimento avrebbe assalito il tifoso andriese durante quella partita contro il Perugia, nelle cui file militava proprio Renato.
Contro la sua Fidelis. Era il match di ritorno contro gli umbri, vittoriosi all’andata con una sonora quaterna, attutita dal gol di Recchi, che aveva fatto ripiombare il tifoso andriese nel suo perenne stato di angoscia. “Troppo triste sfogliare così presto l’album dei ricordi”, confidò un malinconico Biagioni in maglia bresciana di ritorno ad Andria, appena alla seconda giornata della stagione 1998/99. Ma a differenza di Renato, Biagioni ebbe tutta l’estate per metabolizzare il distacco da una città che tanto lo ha amato. La partita terminò con un pareggio, decretato dai goal del futuro Campione del Mondo Materazzi e dal rigore di Biagioni. Partita durante la quale il portiere Pagotto, fresco ex-rossonero, si erse ad autentica saracinesca, impedendo ai pugliesi di fare bottino pieno, con tanto di ripetuti coloriti insulti dalle gradinate, esasperate dalla sua eccellente prestazione. Di quel pomeriggio, caratterizzato da un grigio plumbeo, ricordo lo scenario surreale. Fosse nato un cinquantennio più tardi, Kafka avrebbe tratto ispirazione per uno dei suoi (pallosissimi) racconti dell’assurdo, con protagonista quel centrocampista che per qualità e ardore agonistico meritava ben altri palcoscenici, peraltro già calcati, visti i suoi trascorsi in massima serie col Lecce. Perugia, dove peraltro fu luogo del più vivace alterco tra presidenti che l’antologia calcistica italiana ricordi, fu solo l’inizio di una carriera in crescendo che l’avrebbe portato a Bologna, Napoli e Parma.
La rosa della Fidelis Andria 1996/97 pareva una rassegna di foto segnaletiche, più che di calciatori. Barbe lunghe, orecchini da far invidia a mezzo Sudafrica, capelli a metà strada tra il metallaro e il Renegade che imperversava su Rete4. Sguardi da fuorilegge, incrociati i quali un po’ di strizza la provavi. Eppure erano solo calciatori, quelli che ogni domenica avvicinavano il sogno di un ritorno nella serie cadetta scippataci appena l’anno prima. Se poi a queste piacevoli brutture estetiche si aggiungeva tecnica, tenacia, esperienza, ecco che la promozione era servita. Quasi a voler lenire l’atroce beffa di un anno prima a Marassi. Anzi, a rimuoverla del tutto. A capo della variopinta ciurma era stato messo Papadopulo, toscano ma non toscanaccio, purtuttavia non meno rude di colleghi corregionali ben più titolati.
L’Andria correva per il ritorno in B, che fu sancito nella trasferta di Giulianova una sorta di revival di quanto successo 8 anni prima qualche decina di chilometri più a nord, a Fano. Ora che ci penso, la storia della Fidelis è costellata di revival, quasi voglia indurti a rituffarti in magiche avventure, come se il ricordo fosse solo una porta da schiudere, e non uno stato d’animo che rievochi malinconiche nostalgie e irrecuperabili gioie. A fare in modo che quella porta si schiudesse, contribuì decisamente Olive, con le sue letali incursioni in area avversaria.
Nato nella provincia barese ma cresciuto calcisticamente nella Primavera del Monopoli, nel 1992 con la maglia della Vis Pesaro realizza 9 reti, per poi accasarsi al Lecce con cui sale in Serie A, prima di giungere all’ombra dei Campanili, dove emerge nello scacchiere di Papadopulo. Scacchiere sul quale fatico a trovare pedoni e, per contro, vedo solo Re e Torri, visto che le peculiarità di quell’organico annoveravano i piedi fatati di Oberdàn, la cattiveria sottoporta di Lemme, la sapienza di Mariani, il fosforo del metronomo Cappellacci, la solidità di Scarponi, l’esperienza di Luceri e il dinamismo di Frezza e Sturba. Basti guardare il curriculum di questa gente per capire di che pasta fosse fatta quella Fidelis. Le sembianze da truci erano solo di contorno ad un bagaglio invidiabile di tecnica, sagacia e, strano a dirsi date le sembianze anarcoidi, disciplina. Fu proprio questo mix che consentì al Leone, spogliatosi ormai delle vesti di cane bastonato dal Grifone a Marassi l’anno prima, di tornare a ruggire. Finalmente un campionato in cui il Leone non dovette accontentarsi di essere la cicala in cerca di punticini da raggranellare in vista di una faticosa salvezza. Di tali mutazioni genetiche, questa fu la più piacevole. Papadopulo seppe gestire quel gruppo, in cui Olive fece la sua parte, rivelandosi feroce rapinatore di palloni peraltro dalla spiccata propensione al goal e condividendo l’attenzione del pubblico con Cappellacci, veterano di quella Fidelis.
Nell’arco della sua carriera Olive non si scostò dal suo profilo di serio professionista, abituato anche al cosiddetto “lavoro sporco”, espressione che personalmente detesto. Che significa “lavoro sporco”? E’ sporco recuperare palloni, e rincorrere avversari in mediana o nella propria trequarti? Io lo trovo nobile. Si sa, le ville del Palladio mica venivano su solo con la matita e un certosino lavoro fatto di squadre e goniometri e calcoli. Il Colosseo l’han tirato su muratori, maestri di manualità. Quello che i soliti sedicenti esteti del calcio etichettano come “lavoro sporco”, io trovo invece che nobiliti il vero lavoro di centrocampista. Se poi tale centrocampista si rivela all’occorrenza goleador, ecco che la nobilitazione agli occhi di sedicenti puristi e/o esteti del calcio diventa necessaria.