“Che me ffà sentì importante anche se nun conto gnente” cantava un barbuto Venditti, celebrando la vittoria di un sudatissimo scudetto. Ma sintetizzando anche la carica immaginifica del tifo, ossia quello stato mentale che induce un individuo ad interiorizzare dei colori, di una storia. E farli propri, sentendosi parte, seppur piccola, di quella storia. Scomodando il greco, si scopre che il termine deriva da «typhos», ossia “fumo”. Etimo riconducibile all’usanza degli spettatori delle Olimpiadi nell’antica Grecia di festeggiare le vittorie dei loro beniamini intorno ad un falò. Ma “typhos” significa anche “febbre” e, metaforicamente, ”offuscamento dei sensi”. L’etimo si riconduce pertanto ad uno stato mentale in cui la ragione è accantonata e prevalsa da stati d’ansia. La sintomatologia prevede stomaco chiuso, inclinazione all’ imprecazione, seguita sovente dal bisticcio. Il tutto solitamente nell’arco di novanta minuti. Ed una propensione al lungo chilometraggio, da coprire in poche ore, al seguito dei propri colori. L’autenticità della patologia è testata nei momenti meno felici, quando la mestizia è per di più accresciuta da paragoni col passato. Che tutto ridimensiona quand’anche le cose vadano per il meglio.
E’ il destino dei calciatori del Napoli, costretti perennemente a convivere col peso di trofei vinti a suon di tango e samba. Medesima sorte tocca a chi indossa la casacca del Toro, che vorrebbe rivivere le imprese del binomio Pulici-Graziani che ai granata regalò l’ultimo scudetto di una storia gloriosa. Idem per chi indossa i colori blucerchiati, che intrinsecamente impongono di reprimere le nostalgie delle gesta di un altro duo che consentì alla Samp di fregiarsi dell’unico scudetto, corredato di altri trofei, della sua storia. Scendendo di categoria ma non sul piano emotivo, stessa sorte tocca a chi calca il Degli Ulivi, laddove sei anni di “salite” e salvezze che sanno di promozione pesano come un annoso termine di paragone. E mettiamoci pure una promozione addirittura accarezzata, pur nella consapevolezza che fosse ben oltre le aspettative. O no? Al punto da non risentirne quando l’illusione (lo fu davvero?) svanì.
Nato il 2 Luglio del 1949 a Camposampiero (PD), Gianfranco Bellotto inizia la sua carriera da calciatore nel Giorgione in Serie D. Poi alla Solbiatese in C e Reggina, dove esordisce in Serie B. Trentuno gettoni ed un gol, prima di ripercorrere tutta la Penisola fino a Brescia, sempre tra i cadetti. Con le Rondinelle si conferma centrocampista di qualità dalla discreta propensione realizzativa. Trentuno presenze e due gol si rivelano sufficienti per catturare l’attenzione del Modena. Centotto volte e dieci gol, tra cui quelli necessari per il ritorno degli emiliani in serie B, il suo ruolino con i canarini. Poi l’Ascoli dell’indimenticabile Rozzi capisce che quel ragazzo, i cui baffi paiono ingrigirne l’anagrafe ma non il talento, è maturo per il grande salto. Quattro anni al Del Duca, di cui la promozione in serie A nel campionato 1977/78 rappresenta un ottimo inizio. L’ attitudine alla corsa sia in fase difensiva che d’impostazione, con la quale sopperisce ad una tecnica non eccelsa, risulta fondamentale per lo storico quarto posto degli ascolani. Memorabile poi lo sgarbo rifilato in due battute alla Vecchia Signora dei futuri campioni del Mondo.
Nel 1981 Bellotto si trasferisce alla Sampdoria di Mantovani, che culla sogni di grandezza senza venir meno ad un’adeguata programmazione. E nemmeno a quella dose di umanità che, quando si pensa in grande, spesso si dilegua prevalsa dalla sete di vittorie. D’altronde Genova non è l’incravattata e frenetica Milano. Non è l’industriale Torino, dai ritmi scanditi da erre mosce icone di stile e dalla battuta sempre a metà strada tra l’elegante ed il caustico. Questa cornice di familiarità è prodroma a quella Sampdoria che inizia ad infastidire le grandi. Bellotto si rivela uno degli artefici di questa transizione. Settantadue presenze ed un gol il contributo alla causa blucerchiata, che rivelano l’indifferenza del centrocampista al crescente peso dell’anagrafe. Bellotto conosce ancora la gioia della promozione in serie A, sancita da un suo gol contro il Bari. Poi ancora tre anni in blucerchiato, durante i quali scende in campo con un giovanissimo Mancio, Scanziani, il geometra Liam Brady e il pluridecorato Francis. Poi qualche sgambata tra i dilettanti del Mestre, prima di intraprendere la carriera di allenatore.
Giorgione, Pistoia e Mantova le prime tappe del percorso di allenatore. Poi la chiamata dei Fuzio, grazie alla quale Bellotto esordisce in serie B. Ad Andria eredità da Attilio Perotti una squadra compatta ma che in zona gol manca di un attaccante puro. Pertanto, nell’arco dell’annata 1993/94 la Fidelis ha fatto di necessità virtù, tramutandosi in una cooperativa del gol, con Masolini e Ripa nelle inaspettate vesti di cannonieri. Una non più guardinga Fidelis indossa i panni della compagine navigata ed adusa ai pericoli della serie cadetta. Ma la mancanza di un attaccante dalla brillante vena realizzativa alimenta i soliti mugugni. I Fuzio ed il ds Guido Angelozzi capiscono l’antifona e regalano alla Fidelis un reparto offensivo di tutto rispetto. Partito Insanguine, alle pendici del Castel del Monte giungono il giovanissimo Nicola Amoruso, bomber di riserva della Sampdoria di Gullit e Mancini, lo sgusciante Ricky Massara dal Pescara, l’esperto Alessandro Morello, il vice-Zenga Beniamino Abate e il navigato Daniele Pasa.
Tuttavia, Bellotto, a fronte del notevole arricchimento della rosa, sceglie di non snaturare l’organico federiciano, che continua a poggiare sull’architrave storica costituita da Luceri, Mazzoli, Quaranta, Cappellacci, Caruso, Ianuale e Masolini. Il risultato è una Fidelis dagli automatismi collaudati, resi micidiali dall’inconsueta prolificità del reparto d’attacco. Consapevole dell’organico a sua disposizione, Bellotto gestisce con raziocinio questo equilibrio. Atteggiamento premiato da risultati positivi, tanto che una decina di giornate è sufficiente per affacciarsi timidamente alla cerchia ristretta della lotta per la serie A. Il 3-1 all’Ascoli di Bierhoff e alla Lucchese di Fascetti, la quaterna rifilata al Como di Tardelli e dell’emergente Zambrotta, il corsaro 2-1 tra le mura clivensi, ed i successi contro Ancona, Lecce e Verona sembrano ammaliare la piazza, tuttavia restia a lasciarsi andare ad imprudenti abbagli. Eppure, alla luce anche delle brillanti prestazioni contro il Napoli in Coppa Italia, i numeri sono incoraggianti. E quel “saliremo in serie A“, che qualcuno canterebbe più per goliardia che per ambizione, è strozzato da una impressionante serie di passi falsi.
La Fidelis inciampa in casa con l’Udinese, a cui segue la debàcle di Cesena. Poi pareggi e sconfitte, ed una sola vittoria con il Lecce grazie a Mazzoli, che sanciscono il dodicesimo posto finale. In un intreccio di esplosioni, di meteore, di conferme, la stagione è scivolata via, con una piazza ancora incolpevolmente ingabbiata nei retaggi del passato, che hanno forse indotto a non percepire la reale entità del campionato. E se il conseguimento della salvezza è acquisito senza patemi, il merito è anche del tecnico veneto.
Emigrando a Venezia, lascia una latente sensazione di incompiutezza, alimentata anche da alcune partenze, facendo intendere che il destino forse avrebbe potuto riservare lotte in un’estremità della classifica inconsueta per la Fidelis. Sulla scia del brillante girone d’andata ed una salvezza acquisita agevolmente, forse qualcuno si illude che in cadetteria la Fidelis sia comunque di casa. Approccio che pone probabilmente le basi per l’impostazione più spregiudicata che caratterizzerà la stagione successiva. Dopo il biennio lagunare, sul quale pesa la pesante svista sul futuro romanista Mancini, Bellotto riprende il suo girovagare per le panchine della Penisola. Treviso e Cagliari, prima di rientrare alla Sampdoria, di cui si dichiara tifoso. Poi il ritorno a Modena, dove Bellotto finalmente conosce l’esordio su una panchina di serie A, sebbene poco possa per evitare la retrocessione degli emiliani. Vicenza, Salerno, Novara e Ragusa le ultime esperienze di allenatore, prima di dedicarsi alla politica, in qualità di assessore allo Sport nella sua Camposampiero. Un’esperienza che porta avanti in linea col suo modo di vivere lo sport, in silenzio e senza proclami. Laborioso, ombroso. Ma non burbero.
La memoria del tifoso andriese gli riserva un posto di tutto rispetto. Immaginando magari che, in tutto quel bianconero e blucerchiato che colora il passato del tecnico, ci sia anche spazio per il biancazzurro federiciano, a cui ha regalato la percezione che si sarebbe potuto andare “oltre”. Forse.