MARCO GIAMPAOLO, ONORE DIGNITA’ E 442

Osvaldo Ardiles, centrocampista che apportò il necessario fosforo all’Argentina nel Mondiale dei dittatori, dichiarò che “non è difficile schierare 11 giocatori in campo. Il problema è che questi poi si muovono”. Con la consueta aria da intellettuale, esternazione del suo essere sottile e razionale, il tecnico argentino sintetizzò argutamente la complessità del suo mestiere. Il sostantivo “allenatore” non rende merito agli oneri del mestiere, omettendone le mansioni principali. Non trattasi solo di catechizzare il calciatore ed intuirne la recettività nell’inculcargli le consegne tattiche. Ma anche decidere titolari e sostituzioni, decifrare gli scenari delineantisi prima e durante la gara. E sempre col fiato di tifosi e critica sul collo, con i frastuoni mediatici di cui alcuni tecnici ne sono animatori. Altri ne rifuggono, con orgoglio e dignità.

Come Marco Giampaolo, a cui queste doti sono tramandate da genitori emigrati in Svizzera sulla scia di tanti connazionali, inseguendo lavoro e un barlume di benessere. Nato il 2 Agosto 1967, Marco eredita dal padre, interista dalle idee di sinistra vecchio stampo, l’etica del lavoro e un senso di giustizia che anni dopo lo indurrà a definire la VAR un efficace rimedio alla sudditanza psicologica degli arbitri. Marco gioca a pallone e, da ammiratore emulo di Salvatore Bagni, si rivela un centrocampista con discreta tecnica e molta generosità. Ma evidenzia anche un’inconsueta attenzione alla preparazione delle partite. Quasi avverta i sintomi di una vocazione che convoglia la sua attenzione verso la lavagna piuttosto che sul rettangolo verde. I contratti gli impongono gli allenamenti da calciatore. Lui vi si reca con l’animo dell’apprendista allenatore, ai cui occhi un allenamento si tramuta in un’incubatrice di idee. Il seme è gettato e, a suon di appunti scritti con certosina accuratezza, mette radici. Chissà…

Intanto Giampaolo milita nel Giulianova per quattro stagioni, di cui una insieme al fratello Federico. Poi Gubbio, Licata e Siracusa. Nell’estate 1995 Giampaolo approda ad Andria, al seguito di Giuliano Sonzogni, suo pigmalione consapevole che le qualità dell’abruzzese, umane ancor prima che calcistiche, ben si sposino con il suo calcio offensivo fatto di tattica del fuorigioco, difesa alta e rapidi capovolgimenti di fronte. Anticonformista ma non eccentrico, arroccato su dogmi di chiara derivazione sacchiana, Sonzogni schiera la squadra a zona. Il gioco è spettacolare, a tratti divertente. Ma la rete andriese si gonfia spesso. Il 2-3 di Palermo e la debàcle interna col Perugia stridono coi roboanti 4-0 casalinghi con Genoa e Palermo ed i pareggi con le concorrenti per la salvezza. Tanto basta per fornire una diagnosi esaustiva del credo calcistico di Sonzogni.

Dopo il sonorissimo 1-5 a Pescara la società lo esonera, sostituendolo con il secondo Stefano Boggia. La vittoria col Cesena alla 37ma giornata precede la sconfitta in casa del Genoa, e la concomitante vittoria del Brescia a Cesena spedisce i pugliesi in C1. A chi attribuire le colpe? All’alterigia del tecnico, manifestata anche verso una piazza che in fondo non lo ha mai digerito? Al rendimento calante di alcuni elementi? Una campagna acquisti non indovinata? E’ plausibile che una sola spiegazione sia insufficiente. Nei bar citta dini si mormora di risultati già scritti e di consuete storie dei finali di stagione. Accantonando i “sentito dire” che privano tali ipotesi di attendibilità, è probabile che i dissidi nello spogliatoio abbiano acuito gli attriti con un allenatore dalla congenita propensione all’antipatia. Preparato, decisamente. Però noncurante del rapporto con uno spogliatoio tecnicamente valido, ma forse bisognoso di rapporti più distesi. E se le velleità andriesi di un’altra sudata salvezza si protraggono fino a Giugno, il merito è anche di Giampaolo. 36 presenze ed una rete nell’1-1 di Pistoia. Poi via, in punta di piedi, così com’era giunto.

Emigra a Gualdo, ma le logore cartilagini delle caviglie decidono che è abbastanza e ne anticipano la fine della carriera, a soli trent’anni. Poco male, data l’impazienza di dar seguito al quel processo innescatosi nella sua mente già da calciatore. Come se il percorso di calciatore fosse stato un tedioso disbrigo burocratico, ma propedeutico alla carriera di allenatore. Da studente smanioso di diventare studioso, Giampaolo approda al Pescara, che lo arruola come osservatore e poi come secondo. Nel suo percorso formativo spiccano Giuliano Sonzogni, da cui eredita l’organizzazione in fase di non possesso, e Delio Rossi, del quale apprezza l’attenzione alla fase offensiva. L’incontro con Galeone è illuminante, trasmettendogli la cultura dell’estetica del gioco. Basti ricordare che agli ordini del tecnico napoletano hanno corso gente come Gasperini, Allegri, Sarri e Di Francesco. Quasi a sottolineare che il campo sia un vivaio di allenatori ed un laboratorio di tattica, ancor prima che un rettangolo di gioco.

Ispirato da Del Neri, Giampaolo si innamora del 4-4-2, di cui si rivela un integralista moderato. Ossimoro che trae giustificazione dalla predilezione per quei numeri 10 bistrattati da questo modulo, sì quadrato, ma in cui fantasia ed estro sono percepiti come ingestibili gingilli. Insomma, la scomposizione della sua visione del calcio evidenzia una chimica singolare, in cui convivono organizzazione, fantasia, dinamismo ed occupazione degli spazi. Un concentrato frizzante che gli consente di conseguire una salvezza a Siena e sfiorare la panchina della Juve, alimentando i dubbi di chi si interroga sul perché non alleni una grande. Lui replica che gli basta lavorare senza ingerenze che snaturino le sue idee, deviandole verso altrui esigenze. La promozione di Ascoli e la salvezza di Cagliari premiano le sue intuizioni, valorizzate da un’integrità morale che affiora quando a Cagliari è esonerato, poi richiamato mesi dopo. Si salva e l’anno successivo è esonerato per divergenze di idee. In Sardegna giunge Sonetti, che si dimette nel giro di un mese. Cellino richiama Giampaolo. Ma, per tutta risposta, il vulcanico presidente riceve una trascrizione di quei valori. “Pur nella consapevolezza del danno economico che ne deriverà, rinuncio a tornare a Cagliari. Orgoglio e dignità non hanno prezzo”. Orgoglio e dignità.

A Brescia, piazza focosa e complicata, Giampaolo è accolto male. Resiste, poi sparisce. Per poi dichiarare “Sono stato fatto passare per pazzo, invece sono molto lucido. Semplicemente non mi riconosco in questo calcio selvaggio”. Ancora onore e dignità, pilastri di un approccio incardinato su cultura del lavoro e studio, nella consapevolezza che il calcio non sia una scienza, sebbene esposto ai vantaggi di una modernità malata di un’esasperata scientificità. In un momento storico in cui i droni sono il braccio armato di un imperialismo ingordo, lui ne individua pacifiche potenzialità. Anticipa i tempi ed a Treviso chiede di installare telecamere sui pali dell’illuminazione per monitorare equilibri, movimenti senza palla e sovrapposizioni.

Ad Empoli non stravolge gli automatismi collaudati dall’amico Sarri e guida i toscani ad uno storico decimo posto, mettendo un’altra salvezza in saccoccia. E il cuore dei tifosi pure. Poi la Genova blucerchiata. Un triennio non privo di soddisfazioni, un ottimo impianto di gioco che valorizza nuovi talenti e giocatori già affermati. Un triennio conclusosi con l’approdo al Milan.

Dal prossimo 9 Luglio, nel giorno del tredicesimo anniversario del cielo coloratosi di azzurro sopra Berlino, Milanello sarà il suo laboratorio. Il Meazza la sua cattedra. Gia’, Milanello. Dove tutto ebbe inizio, dove il credo del suo maestro si tradusse in metodi di allenamento che porto’ il Milan sul tetto d’Europa e del mondo. Lui insegnerà ed impartirà come a Giulianova. Come a Cagliari, Empoli, Siena, e Genova.

Avesse avuto natali ispanici, si sarebbe detto che sia un “hombre vertical”. Ma Giampaolo non ostenterà mai pigli militareschi da ”caudillo” dello spogliatoio, nonostante il medesimo procedere diritto in un mondo pieno di curve cieche. E con un che di leopardiano dipinto sull’ascetico volto, poco incline al sorriso. Ma non è pessimismo cosmico. Solo onore e dignità.

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