Enrico ci fa accomodare, ci invita nel suo negozio dove svolge la sua attività oramai da dieci anni. Fisico asciutto da calciatore, altro che ex calciatore. In radio passa “Ormai è tardi” di Vasco e senza nessun cenno da parte nostra Enrico parla del suo mondo ormai passato, la parte che ha lanciato lui nel professionismo: il settore giovanile.
Nel nostro paese versione pallonara quante volte dopo le sconfitte della nazionale e dopo i pessimi risultati dei nostri club ci siamo sorbiti lunghi sermoni su quanto i settori giovanili sono parte della soluzione e non di certo un problema per il calcio nostrano. Ormai molte squadre al di sotto della Serie B appaltano i loro settori giovanili ad altre società, disinteressandosi della crescita in casa dei propri calciatori. I club di Seria A invece faticano a sfornare non solo campioni ma anche calciatori pronti per il grande calcio. Enrico dice subito la sua: “Nel meridione c’erano tante piazze che facevano il campionato Primavera, alcune non avevano tante risorse ma avevano una buona organizzazione e riuscivano a sfornare tanti calciatori pronti per il professionismo. C’erano anche le strutture e soprattutto i maestri. Si faceva anche scouting”.
Nei suoi occhi un velo di nostalgia e di orgoglio per aver rappresentato, tra l’altro come primo nella storia del professionismo andriese, la propria città crescendo nel settore giovanile della Fidelis della famiglia Fuzio: “Bisogna sempre ricordare e ringraziare quello che i Fuzio hanno speso e costruito per la nostra città a livello sportivo e di immagine”.
Ognuno ha le ricette pronte, ma sembra che manchi sempre l’ingrediente principale: “Ci vuole pazienza nell’attendere i calciatori ed anche un pò di rischio. Scommetterci su insomma. È facile fare gli esempi attuali dell’Atalanta e dell’Ajax ma il calcio italiano possedeva settori giovanili invidiati in tutta Europa che adesso non ci sono più, o meglio non sono quelli di una volta. Le Leghe e la Federcalcio devono investire soldi, sostenendo le società nel mantenere ed ampliare i vivai. Anche la questione campionati e le sue riforme ormai sono diventate ridicole. Non ci guadagna nessuno, soprattutto i giovani calciatori”.
Il mondo è cambiato, la società è cambiata ma su dove imparare a giocare a calcio, secondo Enrico, non ha subito alcun cambiamento: “Giocare per strada è fondamentale sia dal punto di vista della crescita tecnica ma soprattutto nel temperamento, allenarsi nel settore giovanile ogni giorno lo è altrettanto. Le scuole calcio servono ma sono insufficienti, per quanto siano importanti”.
Poi le riflessioni sul calcio moderno scompaiono momentaneamente dalla nostra chiacchierata, per far posto alla sua storia: “Ho iniziato a fare allenamenti con la prima squadra, poi a dicembre (1997 ndr) fui aggregato definitivamente assieme a Francesco Di Bari. L’anno dopo feci il ritiro a Norcia e poi andai in prestito all’Aquila, ma volevo restare. I calciatori giovani devo allenarsi ed aspettare il proprio turno. Se si allenano con i grandi crescono meglio. Quello fu un errore, non solo mio. Dopo l’Aquila tornai ad a Andria e rescissi il mio contratto per andare a Melfi, forse fu un altro errore. Poi Barletta, Internapoli, Locorotondo, Noicattaro, Trani e Milazzo. Poi in eccellenza a Cerignola, Ostuni e Bisceglie. A 29 anni si ripresentò la pubalgia che mi portavo dietro da giovanissimo e decisi di ritirarmi anche perché le motivazioni nello sport sono tutto. Mi rimane l’esperienza incredibile di aver giocato tanto e in tante parti dello stivale, ho conosciuto tante belle persone e soprattutto mia moglie grazie al calcio”.
Sicuramente Enrico era uno dei più talentuosi di quella primavera, riuscì a maturare tre presenze in B con la Fidelis con l’esordio di Pescara: “Nella settimana prima della trasferta di Pescara iniziai a subodorare che potesse arrivare il mio turno. C’erano un pò di infortuni e squalifiche. Ma la cosa che mi insospettì fu che in settimana stamparono la maglia con il mio nome ed il numero 34 sulla schiena. Per fortuna la partita dell’Adriatico si mise bene con la doppietta di Giammarco Frezza e feci così il mio esordio. Non so quanti scatti in profondità provai. Ciccio Tudisco mi diede una palla fantastica ma purtroppo me la ritrovai sul destro e strozzai la conclusione. Che emozione, ero felice ma soprattutto determinato. Mister Papadopulo era un grande allenatore, un sergente, un sanguigno che teneva la squadra sempre viva e sul pezzo. Il calciatore che più mi impressionava era Roberto Cappellacci, il capitano, per qualità tecniche e intelligenza calcistica. Era veramente uno squadrone quello lì”.
I ricordi riaffiorano, diventano vivi e la memoria va agli avversari e compagni importanti incontrati durante quel campionato. “In quei campionati primavera ho incontrato Paolo Cannavaro del Napoli, Ciccio Brienza del Foggia, Domizzi della Lazio e soprattutto il più forte di tutti: Fabrizio Miccoli del Casarano. Si vedeva che faceva la differenza, destro e sinistro naturale, tecnica e velocità. Come compagni di squadra Santoruvo, che arrivò l’anno dopo e Lupatelli che ricordo voleva smettere e poi vedi che carriera ha messo su”. In quelle primavere basti ricordare che il Torino aveva come coppia d’attacco Pellissier e Tiribocchi, la fortissima Roma di Daniele Conti e il Perugia con Storari a difendere i pali. Squadre strapiene di calciatori cresciuti nei vivai che hanno costruito le fortune dei Club, hanno dato al calcio italiano qualità e numeri importanti. Tra l’altro spesso ricordiamo soprattutto gli attaccanti ed Enrico precisa: “In realtà non ero un attaccante, a me piaceva e mi sarebbe piaciuto giocare più arretrato, da mezz’ala. Ma in quella squadra gli attaccanti mancavano ed io ero già ben strutturato fisicamente. Forse anche quello fu un errore, ma è andata così”.
Ritorna l’orgoglio di aver vissuto per poco e da protagonista stralci di grande calcio di provincia e ci racconta un aneddoto: “In quella stagione di Serie B c’erano giocatori incredibili come Francioso, Di Vaio, Artistico, Buonocore. Però mi ricordo in una trasferta a Verona dove ero in panchina e parlavamo del loro attaccante che sino a quel momento non aveva toccato palla ed esaltavamo la prova dei nostri difensori. Macché, contro-movimento, riceve palla ed a volo insacca in rete: era Totò De Vitis. Papadopulo ringhiando si gira verso la panchina e ci dice di stare zitti perché con certi avversari non si scherza”. Sorride.
La chiacchierata continua parlando di calcio, ovviamente. Di nuovo sulla questione vivai. Modelli da seguire e rivoluzioni non solo da annunciare. Un calciatore rimane sempre un calciatore anche se nella vita ora fa altro. Ci ha dato timidamente e con naturalezza un visone precisa di quello che era e quello che dovrebbe essere una colonna portante del sistema calcio, ovvero i settori giovanili. Involontariamente ha dato consigli a chi è un giovane calciatore, magari di belle speranze, elencando quello che poteva esser fatto meglio da lui e dalla società. Ma senza un velo di polemica.
Grazie Enrico, di certo rimarrai nella storia della nostra Fidelis con la speranza di veder crescere ancora sui nostri campi calciatori provenienti dalla nostra terra. Si deve fare, è una questione di orgoglio, è una questione di calcio che rimane la cosa meno importante delle cose più importanti.
Cofondatore del blog . Mi innamorai del calcio una sera del 20 Maggio 1992. Appassionato di sport, delle sue storie e soprattutto del pretesto con cui lo si usa per parlare di qualsiasi cosa. Ma faccio tutt’altro nella vita.