AGOSTINO DI BARTOLOMEI, MONDO COGLIONE

Siamo negli Stati Uniti, sulla costa nordorientale tra lo Stato del Connecticut e lo Stato del Massachusetts, terra dell’Università di Harward.

Nel 1852 due giovincelli, aldilà dell’oceano nella città di Horace, Smith e Daniel B. Wesson decidono di intraprendere un’attività imprenditoriale fondando un’azienda di armi: la Smith & Wesson, azienda che ha avuto fortune alterne. Nonostante, sentendo gli esperti, storicamente non abbiano apportato alla tecnologia bellica (militare e civile) nessun tipo di rivoluzione tecnologica hanno mantenuto negli anni un’aurea quasi mitica.

Ma senza inceppi, proprio una Smith & Wesson calibro 38 nel 1994 a San Marco frazione di Castellabate (SA) divenne strumento di morte. Si suicidò Agostino Di Barlolomei colpendosi il petto. Un quasi mito ammazza un mito.

Immaginate un “volante” sudamericano, immaginate Scirea o Beckenbauer. Pensate a Daniele De Rossi in qualità di suo erede naturale e non solo tecnico. L’hanno sempre definito lento, ma lui si definiva veloce con il pensiero perché il lavoro sul campo ne aveva affinato il ragionamento tattico tanto da allungarsi la carriera come libero proprio come i suoi nobili paragoni appena enunciati. Il dieci sulle spalle, una fascia al braccio, un tiro micidiale. Non si è capitani per caso: esiste il carisma e le poche parole. Esiste la cultura di cui lui era padrone insaziabile, ma ne provava quasi vergogna. Poi tre scudetti ed una Coppa Italia con la Roma.

Anche quella finale di Coppa Campioni persa a i rigori guarda caso dieci anni prima del suo gesto, “stronzo” come lo definì suo figlio Luca in un “mondo coglione” che ora ad ogni anniversario – noi non ci defiliamo – piange un campione quando non serve più, disse Venditti in una canzone.

Come se il ricordo fosse perpetuamente inutile nei fatti, ma utile a noi a capire un mondo che non c’è più. Anzi un mondo che abbiamo sfiorato ed è cambiato senza che ce ne accorgessimo come passare da un’alba al tramonto facendo e sbrigando le nostre faccende. O forse un mondo che non è fatto per persone sole nella propria timidezza e nel proprio sapere, di sentirsi importanti senza dirlo a nessuno: l’aspettativa che qualcuno si ricordi di te e ti renda necessario.

Il suo sapere, la sua curiosità per la cultura e l’arte sono lontani anni luce dal prototipo di calciatore d’élite al giorno d’oggi. Divideva la sua vita ed i suoi interessi dal campo, era libero in un mondo che costruiva modelli che lui nemmeno immaginava o che forse non considerava semplicemente.

Lui da Tor Marancia, dalla periferia romana fatta di chiesa, pallone e bandiere rosse ed ora di splendidi murales. Tutta la trafila giallorossa sino a quel maggio sportivamente maledetto, per poi passare al Milan del Barone e di Berlusconi e concludere nella Salernitana da capitano ed una promozione in Serie B.

Sino al “Degli Ulivi”, allora “Comunale”, dove il 24 settembre del 1989 scambia i gagliardetti con il nostro capitano Angelo Carpineta. Lui Agostino un gigante con la fascia che guarda per terra la monetina sul campo assieme agli altri. Una leggenda sul nostro prato, contro cui quell’anno non perdemmo, anzi sfiorammo al ritorno la vittoria in un grande campionato concluso in nona posizione.

In quell’immagine colori forti ed emozioni difficilmente descrivibili. Un quadro colorato fatto di pini sullo sfondo e gente vestita di biancoazzurro e granata in una giornata di sole e di luce, dove i dettagli fanno la differenza.

Come un acquerello di Guttuso, passato dalle nostre terre per motivi politici, al quale fu molto legato Di Barlolomei, il lato emotivo di questo personaggio passa anche per la nostra storia o più umilmente noi entriamo nella storia di “Ago”: un capitano, uomo schivo fatto di cuore e con un’anima che lo rende indimenticabile.

(Foto: Fidelis Andria-Salernitana 0-0, 24 settembre 1989)

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