GIUSEPPE MINAUDO, UN NOBILE DI PROVINCIA

Memore di micro-ustioni, non capirò mai perché aldilà del bancone non si capisca mai la differenza tra “caldo” e “bollente”. Tu ordini “caldo”, oppure accenni un timido “sì, grazie” alla domanda “Lo riscaldo?”, e ti ritrovi poco dopo il cavo orale violentato da colate laviche degne dell’Etna. Ormai ho acquisito esperienza,  alla domanda suddetta rispondo “Sì, grazie, ma non troppo…”, confidando che quel “non troppo” si tramuti in una decina di gradi in meno tali da non brasare le mie papille gustative.

Passano decine di secondi in cui cerco di prepararmi psicologicamente alla imminente ustione. Sovente capita che in quell’attesa incroci un amico, un parente. Classiche domande di rito prima di tornare nella combriccola di degni compari addentando il trancio di pizza o francesina. Oppure incroci qualche professionista della pedata, come accadde in un marzo 1997. Tipica serata domenicale. Si esce con gli amici, lamentandosi di una versione di latino complicata, un ablativo confuso col dativo, o un’equazione da rivedere domani in classe. Niente uozzàpp, niente versioni su internet. “Vabbè vediamo domani in classe”. E poi via con le riflessioni sulla domenica pallonara appena conclusa, JuveInterMilanRomaNapoli, fuorigiochi inesistenti, rigori da esaminare. E nel frattempo si va in pizzeria. Mentre si discute, rivendicando la propria fede calcistica, intravedo tre loschi figuri. Si, loschi visto che quella Fidelis Andria targata 1996/97 pareva una rassegna di foto segnaletiche, più che di calciatori. Barbe lunghe, orecchini da far invidia a sacerdoti aztechi, capelli a metà strada tra il metallaro e il Reneghèid (mi raccomando l’accento..) che imperversava su Rete4. Sguardi da fuorilegge, incrociati i quali un po’ di strizza la provavi. Eppure erano solo calciatori, quelli che ogni domenica avvicinavano il ritorno in Serie B scippataci l’anno prima. Se poi a queste piacevoli brutture estetiche si aggiungeva tecnica, tenacia, esperienza, ecco che la promozione era servita. Quasi a voler lenire l’atroce beffa di un anno prima a Marassi. Anzi, a rimuoverla del tutto.

A capo della variopinta ciurma era stato messo Giuseppe Papadopulo, toscano ma non toscanaccio, purtuttavia non meno rude di colleghi corregionali ben più titolati al servizio di Avvocati o costruttori baresi. Uno che non esitava a strappare rabbiosamente l’erba del campo di allenamento e a fingere di mangiarsela quando intravedeva nella ciurma qualche sbadiglio di troppo o corse indolenti sui campi a “la vìdd V’scegghj” (Via Bisceglie), una sorta di Milanello allestita alla bell’e meglio nella campagna andriese. Nel mercato di riparazione, passato in secondo piano per l’incazzatura per i fatti di Nocera Inferiore, si era aggiunto alla combriccola Giuseppe Minaudo. Quando lessi la notizia sul giornale, sul consueto bancone dei gelati, il Lubrano che era in me fece sorgere spontanea la domanda “Non sarà mica quello lì?”. Sì, era lui. Lui, che poi ritrovai in una domenica sera, in una pizzeria, in attesa di una francesina, sperando che non fosse bollente, mentre discuteva con altri due protagonisti di quella cavalcata trionfale, Oberdàn Biagioni (mi raccomando anche qua, l’accento) e Giammarco Frezza. Era lui, Minaudo. Ecco, ancora una volta. Mi risuona il ritornello dell’epopea calcistica all’ombra dei tre campanili. “La grande storia mi passava davanti e io non ne me accorgevo”.

Minaudo, siciliano di Mazara del Vallo con trafila nelle giovanili dell’Inter, che a 19 anni risolse uno dei derby più accesi che la storia ricordi. Lui, un pulcino, tra campioni del mondo in terra spagnola e future colonne del Milan stellare targato Sacchi-Berlusconi. Fresco vincitore del torneo di Viareggio. Non c’erano ancora gli olandesi, e l’unico tedesco nerazzurro era Kalle Rummenigge, peraltro infortunatosi durante il riscaldamento. Un gol semplice, non bello ma decisivo, una classica zampata con cui spingere la palla oltre la linea e regalarsi attimi di gloria. E poi i sogni, le aspettative su una carriera che meglio non potè cominciare. Beppe si rivelò essere un buon professionista, fisico esile ma non gracile, buoni polmoni, scarsa propensione al ricamo tecnico e tanta essenzialità, sebbene qualche suo gol possa smentire questa grigia etichetta. Uno di quelli a cui spetta il compito arduo di interrompere le trame avversarie, rincorrere un avversario e ripiegare consentendo ad altri di rifiatare. Ma non consideratelo soltanto un buon lavoratore del centrocampo. La sua duttilità gli consentì di fregiarsi dell’etichetta di jolly, figura ormai scomparsa dal calcio attuale, esasperato dai tatticismi. Chi afferma “non esiste più il numero 7, l’ala sinistra, il vero numero dieci è scomparso”, dice il vero. Ma dimentica di aggiungere che “il Jolly è scomparso”, ossia quel giocatore in grado di ricoprire più ruoli, togliendo diversi grattacapi all’allenatore di turno in cerca di soluzioni tattiche efficaci ed immediate. Altri tempi, altro calcio. Fu forse grazie a questa versatilità che fu acquistato dalla Fidelis, già ricca di calciatori di esperienza maturata in campionati ben più impegnativi della C1. Quella versatilità che addirittura lo indusse ad indossare la maglia numero di 10 che qualche anno prima era stato appannaggio di Beccalossi (“Mi chiamo Evaristo, scusa se insisto”) e Brady, e qualche anno dopo del primo Pallone d’oro che la storia nerazzurra ricordi. Consegne tattiche sempre rispettate, qualche gol a San Siro, da buon centrocampista di quantità dai piedi buoni ma non fatati. Insomma, forse una citazione del Liga l’avrebbe forse meritata, ma si sa, Oriali è la storia dell’Inter e della Nazionale.

Anni dopo i colori sulla casacca non cambiano, ma invece di correre al servizio del Biscione, Minaudo suda e sgomita per la Dea. A Bergamo si fa apprezzare per le qualità di serio professionista, iniziando poi il peregrinare per la provincia italiana prima di giungere all’ombra dei tre campanili (scegliete voi quale dei tre..). E in questo non c’è miglior scuola del calcio di provincia, dove lo scudetto è la salvezza, sempre da conquistare a fine campionato. E l’unico primo posto che si conosca è quello del lato destro della classifica…se va bene.

L’Andria correva per il ritorno in B, che fu sancito nella trasferta di Giulianova (stavo per scrivere Fano…). Una sorta di revival di quanto successo 8 anni prima qualche decina di chilometri più a nord. Stesso esodo di massa, stesso percorso in autostrada costeggiando il mare, auto diverse, mangiannàstr sostituiti dai lettori CD, i primi cellulari. Stesso entusiasmo, ma uno spirito diverso rispetto all’esodo di Fano. Con un Montigelli assente stavolta sulle gradinate a carpire le sensazioni di un pubblico andriese ormai aduso alla serie cadetta e desderoso di riprendersela. La storia della Fidelis è costellata di revival, piacevoli e non. Quasi voglia indurti a rituffarti in magiche avventure, come se il sogno e il ricordo fossero solo porte da schiudere, e non qualcosa che rievochi solo malinconiche nostalgie di irrecuperabili gioie o desideri irrealizzabili. A fare in modo che quella porta si schiudesse, contribuì anche Minaudo. Zero gol (non è mica un attaccante..) ma diciassette fondamentali presenze nello scacchiere di Papadopulo, che già annoverava gente del calibro di Mariani, Cappellacci, Olive, Scarponi, Lemme e Sturba, oltre ai citati Frezza e Biagioni.

Al bacone della pizzeria. In quella tiepida serata domenicale lo vidi chiacchierare coi suoi compari di promozione, reduci probabilmente da un anonimo 0-0 a Casarano. Un punticino che probabilmente stonava con quanto mostrato fino a quel momento in campionato. Ma “un punto è un punto”, insegnava Rumignani, sempre fedele al suo credo impregnato di crudo pragmatismo. Li vedemmo seduti al tavolo, come tre vecchi amici. Gino Paoli ne avrebbe magari tratto spunto per un’altra sua canzone, con qualche trancio di pizza e delle birre. Piccoli sgarri domenicali che un calciatore può concedersi, specie quando sei in una piazza come quella andriese, ruspante ma genuina, al punto di essere indulgente quando le cose vanno davvero a gonfie vele. Intorno a loro si creò quasi un vuoto fatto di ammirazione e di malcelato stupore. I soliti bisbigli che ripetevano come un mantra i loro cognomi. E loro? Zero divismo, nonostante la consapevolezza di essere protagonisti di quel momento che di lì poco si sarebbe rivelato in tutta la sua magia in terra abruzzese. Di quella trionfale cavalcata verso il riappropriarsi della Serie B Minaudo non si scostò dal suo profilo di serio professionista abituato al cosiddetto “lavoro sporco”, espressione che personalmente detesto.

Che significa “lavoro sporco”’? E’ sporco recuperare palloni, e rincorrere avversari in mediana o nella propria trequarti? Io lo trovo nobile. Si sa, le ville del Palladio mica venivano su solo con la matita e un certosino lavoro fatto di squadre e goniometri e calcoli. Il Colosseo l’han tirato su muratori, maestri di manualità. Quello che i soliti sedicenti esteti del calcio etichettano come “lavoro sporco”, io trovo invece che nobiliti il vero lavoro di centrocampista. Non palesò alcun disagio per la ribalta tutta orientata ad esaltare i piedi fatati di Oberdàn, la grinta di Olive, la cattiveria sottoporta di Mario Lemme, la sapienza di Mariani e il dinamismo di Frezza. Eppure era quello che aveva giocato con Rummenigge, Bergomi, Zenga, Ferri, Passarella, Scifo, e poi ancora Caniggia e Stromberg.

Ah, a proposito, ovviamente la pizza era bollente….

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