STEFAN EFFENBERG, LE PARTITE MAI GIOCATE

“Tedesco in tutti i sensi. Per fermarlo bisognava ammazzarlo”. Così Maradona definì Rummenigge, suo avversario sui campi della Serie A dove, a detta dell’argentino, si giocava il Mondiale ogni domenica. Se avesse incrociato Effenberg, Dieguito avrebbe analogamente sintetizzato il profilo di questo panzer che sbarca in Italia sulla scia dei connazionali giunti nel Belpaese fra la fine degli anni Ottanta e dopo il mondiale ospitato in Italia.
Stefan Effenberg nasce il 2 agosto 1968 ad Amburgo, città cara ad Heinrich Heine, poeta secondo cui “I tedeschi non diventano migliori all’estero”. Forse aveva i suoi buoni motivi. Ma Heine, non fece in tempo a conoscere la Serie A e Maranello. Effenberg è presto etichettato come la risposta teutonica a Gascoigne, ma se Paolone vive uno stato di infantile scherzosità, Stefan non indugia a meritarsi il soprannome “Der Löwe” (il leone) per l’implacabile furore agonistico e di quel bisogno, tutto germanico, di mostrarsi il migliore. Approccio che induce un plurititolato Boris Becker a non voler vincere “per soddisfare questa mentalità malata”.
A parte i tratti somatici, non impersona pedissequamente lo spirito tedesco basato su volontà, disciplina ed orgoglio. Ma l’irascibile Effenberg è anche un armonioso connubio di potenza, leadership e precisione chirurgica in rifinitura. Maestro dell’ultimo passaggio, dotato di visione periferica come pochi, non sforna tanti gol, ma ne è raffinato suggeritore. Esploso nel Borussia Mönchengladbach, approda al Bayern, acuendo la rivalità tra i club, conseguenza dei mutamenti sociali di una Germania smaniosa di scrollarsi i residui di austerità militaresca per reiventarsi progressista. Il rinnovamento ideologico non risparmia il calcio ed è prodromo alla dicotomia che pone conservatori bavaresi contro anticonformisti ed il ragionato pragmatismo di Beckenbauer contro la scapigliata irruenza di Netzer. L’esperienza in Baviera è in chiaroscuro, ma non gli nega l’accesso all’Europeo del 1992 in una Nazionale lontana dall’attuale varietà di corredi genetici.
L’Europeo non gli consente di partecipare all’amichevole contro la Fidelis Andria appena promossa in Serie B terminata uno a zero per i bavaresi con un gol del futuro milanitsa Ziege, altro astro nascente del calcio tedesco. Risultato maturato in una cornice di festa ed euforia, che ha fatto da prologo alla caccia al souvenir o reliquia calcistica al termine della gara.
Stefan, affatto intimidito dai compagni che hanno vinto il Mondiale sulle note del duo Bennato-Nannini, brilla a centrocampo. La Fiorentina lo porta in riva all’Arno, a supporto dell’altro leone Batistuta. Stefan delizia il pubblico che sorvola sull’isterismo che riversa su arbitri e avversari. Coi suoi gol ed assist i gigliati decollano, ma lo scivolone interno con l’Atalanta dà una virata al destino dei Viola. Il tecnico Radice è esonerato e la corazzata viola, tramutatasi in barchetta di carta, retrocede in B. Non senza mugugni, Effenberg resta in Toscana e contribuisce alla risalita, che prevede anche il doppio scontro con una più matura Fidelis Andria che con il pareggio acciuffato col Verona di un non più acerbo Inzaghi, i successi esterni a Ravenna (gol della meteora Romairone), Modena e Pescara, sono i segnali di una Fidelis più disinvolta. E più sobria nella divisa, priva delle sgargianti fantasie dell’anno prima. La stagione 1993/94 è scandita da comprensibili sconfitte, una benefica “pareggite” e provvidenziali vittorie. L’assenza dei patemi dell’anno prima si spiega con un’oculata campagna acquisti che porta in Puglia Masolini, Giampietro, Mondini, Carillo, Bianchi e Nicola. Innesti che apportano compattezza ad un organico quadrato e dagli automatismi collaudati che un saggio Perotti non stravolge.
L’andata contro i Viola si gioca nella città pugliese, prediletta di un altro tedesco. Ossia Federico II di Svevia che, esprimendo gratitudine alla fedele Andria (“Andria fidelis”) sulla normanna Porta di Sant’Andrea, pose inconsapevolmente le basi per quella denominazione, così aristocratica, cara a tutti noi. Il 17 Ottobre 1993, i federiciani (per l’appunto…) strappano un prezioso 0-0 ai gigliati, privi proprio di Effenberg e con Batistuta, bersaglio facile della tifoseria di casa, annullato da Ripa. Al ritorno, Stefan gioca sul velluto e la Fiorentina perfora Mondini tre volte, prima del gol di Bianchi.
E quando la Fidelis e la Fiorentina si godono rispettivamente salvezza e Serie A, Effenberg vola negli States per il Mondiale, e durante una contestata sostituzione esibisce il dito medio ai tifosi. L’ennesimo deragliamento gli costa l’addio alla Nazionale. Sempre strafottente, ringrazia per la “vacanza statunitense” e non lesina frecciate al veleno contro le icone del calcio teutonico. Celebre l’astio con Matthäus al Bayern e col bianconero Moeller. La dirigenza viola vorrebbe sbarazzarsene, preferendogli l’emergente Rui Costa. Effenberg capisce l’antifona e sceglie di abbracciare un destino che gli dà un’altra chance.
Torna al Borussia, dove vince una Coppa di Germania, prima di riaccasarsi al Bayern. Una minestra tutt’altro che riscaldata. Effenberg trascina i bavaresi verso la Champions League e l’UEFA lo insignisce giocatore della competizione. Il tempo di vincere l’Intercontinentale contro il Boca Juniors e, dopo una fugace esperienza al Wolfsburg, Stefan emigra nel campionato qatariota. Un esotico “buen retiro” dove conclude una carriera brillante, ma arginata da un’indole che gli vale 109 ammonizioni.
Stefan, occhi di ghiaccio e sopracciglia aggrottate sul nibelungico sguardo incazzato non lo rendono il tipo con cui uscire per una pizza, al limite birra. E difatti birrerie devastate, alterchi con la polizia ed altre bravate di gioventù come quando sottrae l’auto al suo allenatore al Borussia e si schianta contro un muro. Antonio Cassano si scansi. E soprattutto due partite mai giocate, al “Comunale”, solo per ammirarne il volto spietato, i piedi fatati e magari una tua effembergata. Che dispiacere.

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