Non c’è due senza tre. Dopo il giocoso funerale milanista inscenato tra i vicoli di Napoli per festeggiare lo scudetto scippato proprio ai rossoneri nella volata scudetto del 1990 e il corteo funebre allestito dai laziali per protestare allegoricamente la fine del calcio dopo gli arbitraggi dubbi a favore della Juventus, ecco il terzo. Per nulla allegorico. Per nulla giocoso. Sarà perché la giocosità non rientra tra le innumerevoli peculiarità dei modenesi, benché facili alla conversazione, magari davanti ad un piatto di tagliatelle o tortellini fatti in casa da accompagnare con un Lambrusco d’annata. Sarà perché giorni fa si è assistito al funerale successivo all’ennesimo fallimento societario. Un altro tassello del generale stato di dissesto, non solo economico, del calcio italiano. Da tempo le vicende erano diventate un giallo. Oserei dire beffardamente, dati i colori sociali. Giorni fa, la certezza. Il Modena, centenaria società calcistica, uno dei tanti simboli del calcio sano di provincia, è fallito.
Già rido, se penso a Bergonzoni, sconclusionato faccendiere dall’accento marcatamente bolognese che porta Oronzo Canà su lidi tutt’altro che felici, salvo imbeccare lo sconosciuto talento brasiliano rivelatosi decisivo per le sorti della Longobarda. Il calcio italiano ne è pieno di Bergonzoni, con la differenza che il calcio è un generatore di commedie e non starò qui ad elencare la cronologia, parzialmente seguita, di un’agonia durata troppo tempo.
Perché preferirei parlare di ciò che la città di Modena ha sempre suscitato. Ancor prima della sua realtà sportiva più rappresentativa, quella calcistica, subito dopo quella pallavolistica. Città di motori e sapori. Solo gioie e zero dolori, eccezion fatta per il portafogli. Una città diventata un pregevolissimo distretto industriale, senza perdere di vista le sue origini contadine ed artigiane. Gente abituata a dar di martello o di falce ma capace poi di sfoderare gioielli di tecnica da far rabbrividire colossi industriali d’oltralpe e d‘oltreoceano. Un inglese una volta mi parlò estasiato di Modena e dintorni come della “Silicon Valley” dei motori. Nomi leggendari sorti attorno ad una cittadina che ha calamitato le attenzioni del globo, quasi fosse una megalopoli occidentale o un paradiso scintillante di grattacieli e di sceicchi dalle spese bizzarre. E come dargli torto? Se in tutto il mondo si associa la Penisola anche a rossi bolidi rombanti, sogno proibito di generazioni dal secondo dopoguerra ad oggi, e a gustosissime prelibatezze enogastronomiche, lo si deve anche a questa città.
Di quei simpatici provincialismi goliardici che a volte trovano negli stadi una sorta di palcoscenico dove continuare storici bisticci di piazza. Non è raro oggi, una volta avventuratisi nel centro storico circostante la Ghirlandina, sentire ancora odori di pasta fatta in casa, con cui deliziare l’olfatto ancor prima del palato.
La globalizzazione imperante e divoratrice di identità. Sì, perché anche qui si è mormorato dell’ingresso di imprenditori cinesi. Ipotesi fondata o pettegolezzo di piazza che sia, apparentemente confermati da una foto di Antonio Caliendo con un cinese a Nanantola nella campagna modenese. Modena non ha affatto digerito questa ennesima presa in giro ai danni di una comunità che tanto ha riposto nel mantenimento del Club. Da sempre. Emblematica è stata la lettera con cui le famiglie modenesi di 158 bambini gialloblù chiedono che la Scuola Calcio Modena F.C. Academy, che raccoglie i giovanissimi calciatori del Modena, non segua lo stesso destino della prima squadra. Lettera di cui riporto solo le parole più tristi, ma proprio per questo più significative. “I bambini si trovano bene, sono aggregati e uniti, sono veri amici e non possiamo pensare di dire loro: “È tutto finito, non puoi più giocare con i tuoi compagni”. Peraltro fa male vedere un leone di categoria come Eziolino Capuano abbattuto. Prostrato, in totale antitesi con il vulcanico allenatore reso celebre da interviste tutt’altro che flemmatiche e da una giustificabilmente rabbiosa performance negli spogliatoi, poi divenuta virale ad opera di uno sciagurata “talpa”.
Un pomeriggio di maggio, in uno scenario bucolico che poco mancava che sbucassero fuori Peppone e Don Camillo per l’ennesimo battibecco, conobbi uno degli ultras della Curva Sud. Davanti ad una birra si lasciò andare a racconti di attriti con tifoserie corregionali, mostrando poi ammirazione per altre tifoserie “amiche” quali Siviglia e Atalanta. E mi stupii quando menzionò trasferte all’allora Comunale, ricordandosi di un doppio 1-0 tra andata e ritorno rifilato ai gialli canarino dalla compagine allenata da quel galantuomo di Attilio Perotti. Un chirurgico rigore di Filippo Masolini (peraltro ex di turno con Roberto Cappellacci) all’andata, e un gol di pregevolissima fattura ad opera di quello scugnizzo di Giovanni Ianuale regalarono alla Fidelis quattro punti da mettere in cascina, per una tranquilla salvezza nel campionato targato 1993/94.
Ad onor del vero l’anno prima i modenesi avevano concesso solo un punto ai pugliesi. Una superiorità temporanea culminata con la vittoria corsara nel ritorno. Da allora la Fidelis si è barcamenata tra lente risalite e ripide discese agli Inferi mentre Modena ha conosciuto anche la gloria della massima serie, come verificatosi anche in passato peraltro, ben prima di incrociare il Leone biancazzurro.
Insomma, sulla scia di quelle mutazioni genetiche riconducibili a vicende calcistiche, il canarino sovente ha recitato la parte del falco, rapace e capace di guadagnare promozioni e comprensibili retrocessioni, fino a defilarsi a favore delle vicine Carpi e Sassuolo. Un progressivo defilarsi che però non ha mai sminuito un dignitosissimo curriculum, che annovera due vittorie di campionati di Serie B, una Supercoppa di Serie C e, udite udite, due Coppe Anglo-Italiane, competizione in cui la squadra modenese vanta il primato. E non susciterei perplessità se scrivessi che Modena, a dispetto di una bacheca priva del blasone da Serie A, tanto ha contribuito al calcio italiano. Sissignore, perché parte della nostra vita è legata a questa città, dove decenni fa i fratelli Benito e Giuseppe Panini decisero di confezionare figurine di calciatori in bustine. Bustine poi rivelatesi in grado di generare dipendenza a tal punto da trasformarci quasi in dei tossici, con gli edicolanti nel ruolo di innocui e paterni pusher. Ad oggi, si può asserire che quella sia stata e sia tuttora l’unica tossicodipendenza sana mai conosciuta da esseri umani. E come non citare il pulcino diventato campione del mondo “là dove osano le aquile”, tanto per restare in tema di ornitologia. E cioè Luca Toni, prodotto del vivaio modenese e laureatosi con l’alloro mondiale a Germania 2006.
Tornando alle vicende calcistiche, oggi quel canarino è caduto, colpito non da una fucilata frutto di scellerati provvedimenti legislativi italiani in tema di cacciagione, ma dall’annosa disattenzione di cui è vittima il calcio italiano. Voglio sperare che quel canarino abbia solo un’ala spezzata, e che solo il tempo potrà guarire, prima di tornare a volare in un cielo sempre più blu, per dirla alla Rino. Preferibilmente al Degli Ulivi, imbattendosi magari nei Masolini e Ianuale 2.0.