STEFAN SCHWOCH, IL BOMBER IN VIAGGIO

“Sì, viaggiareee”, cantava il mai dimenticato Lucio Battisti. Ritornello da cantare a squarciagola col “finestrino abbassato” mentre si andava al mare, oppure immaginando di andarci mentre il cielo sopra di noi ci ricordava che era il classico Lunedì uggioso. Beh, viaggiare sarà pure bello ma ciò che non sopporto sono le attese, le file con in sottofondo il rumore delle tazzine dei bar, le mezzore seduti in attesa che il gate apra, strisciando il dito sul touchscreen sperando che qualche social ci venga in soccorso con qualche notifica, qualche post da commentare.
Talvolta accade che il tedio dell’attesa scompaia lasciando il posto a qualche “ehy..ma quello/a non è….?”, “noo, ma che dici…”,” guarda bene..è lui/lei..”, “sì sì…”. E allora ti alzi, procedi a passo veloce tra il variopinto flusso di gente che deambula negli aeroporti. Il trolley azzurro col numero nove e il cognome stampati mi danno ragione. Mi avvicino per il solito rituale 2.0 quando ci si imbatte in una celebrità: selfie. Io sono tra coloro cresciuti a caccia dell’autografo quale testimonianza dell’incotnro ravvicinato con un calciatore. Ma vabbè, altri tempi, altre epoche, altra tecnologia.
Nel frattempo scorrono nella mia mente i filmati dei suoi gol che seguivano le sigle d’apertura di “A tutta B” e “C siamo”, appuntamenti imperdibili prima di un pallosissimo brano di antologia o di una versione di latino da tradurre. Scorrono nella mia mente le sue rabbiose esultanze con l’esagerata chioma a metà strada tra l’Hippy e Renegade, viaggiando tra una città all’altra a caccia di una salvezza o una promozione da conquistare.
Sì, viaggiando. Proprio come recitava il compianto Lucio. Perché, se lo Stivale fosse stato il globo, Stefan Schwoch avrebbe incarnato il classico esempio di globetrotter. Già, Stefan Schwoch da Bolzano. Che poi non si è mai capito come pronunciare il cognome, difficile specie per chi non ha mai masticato una lingua ostica quale il tedesco. Si passava dallo Schuoch, con le “ch” detta alla toscana, al rude Skwòk quasi fosse uno slavo degno erede di Skuhravy, passando per Swatch – come gli orologi. Un classico globetrotter. Perché nessuno come lui ha incarnato negli anni recenti l’archetipo del centravanti di provincia che lascia il segno ovunque vada, cambiando maglia con la stessa rapidità con cui decideva una partita. Detto così pare si stia parlando del tipico mercenario, senza fede senza bandiera, (in)consapevole interprete di un calcio votato solo al business ed attento al portafogli. Ma il capelluto Stefan non ha mai dato adito a tali becere interpretazioni, brillando per professionalità e mostrando attaccamento alla maglia che magari avrebbe dismesso qualche mese dopo seguendo illogiche logiche di mercato certamente non decise da lui.
Wikipedia mi viene in aiuto, riportando una carriera che recita Passirio Merano, Benacense Riva, SPAL, Crevalcore, Pavia, Livorno, Ravenna, Venezia, Napoli, Torino e Vicenza. Carriera svoltasi prevalentemente a nord della Pianura Padana, oltrepassata una sola volta per timbrare (e che timbro…) la promozione del Napoli in serie A. Impossibile definirlo una “bandiera” dati i frequenti cambi di casacca, ma d’altro canto il bolzanino rientra nel novero delle bandiere di un calcio anticamera di quello che occupa le prime pagine dei giornali. Penso a lui, o a gente tipo Luiso il ”toro di Sora”, “Tatanka” Hubner, Bonaldi, Provitali, Marulla, Riganò, Francioso, ossia quei profeti del gol ai quali le suddette “illogiche logiche” di mercato hanno impedito di godere degli applausi di avvocati dalla erre moscia o tycoon della televisione. Quasi a voler lottare contro un veto misteriosamente (im)posto dagli Dèi del calcio, che li hanno relegati al ruolo di “attaccanti di provincia”.
Etichetta che suona sgradevole, quasi si trattasse di onesti mestieranti del gol che a fine carriera rientrano in ordinarie esistenze. Etichetta spregiativa, che non riconosce il valore di questi profeti del gol, capaci di sfornare gol in quantità industriali. Eppure c’erano tutti i requisiti per esultare rincorsi dai Ferrara, Maldini, Cannavaro, Nesta, Kohler, Thuram, Vierchowood, Bergomi o Baresi, desiderosi di condividere la gioia della sfera appena insaccata piuttosto che di fermarlo. Per vendetta, questi cavalieri del gol hanno sgomitato nelle province dove la serie B era una costante, talvolta noiosa, e la serie A un maledetto miraggio, conquistata e subito l’anno dopo ti sfuggiva dalle mani sotto i colpi di codini, panzer, cigni olandesi, trecce, mitraglie mimate e beffardi “cucchiai”.
Sono ancora in aeroporto. Mentre mi avvicino, dribblando turisti distratti ed annoiati e personale dell’aeroporto, la mente corre esattamente ad una calda domenica di primavera del 1999, una primavera pugliese di quelle in cui proponi ai tuoi compari pomeriggi al mare puntualmente mancati per via di una temperatura calda, ma non torrida. Sì, calda primavera in antitesi con l’autunno “calcistico” successivo, tutt’ora in corso, fatto di stancanti andirivieni tra C1 e C2, cambi di simboli, tristi cadute tra Dilettanti e consolanti risalite nel professionismo. Era l’ultimo anno della Fidelis Andria in Serie B. Al timone del Leone era stato richiamato il sanguigno Rumignani, vecchia volpe del calcio di provincia, al posto di un flemmatico Morinini, il cui DNA elvetico mal si conciliava con una piazza ruspante ed esigente quale quella andriese, abituata, ma sì, anche viziata da dignitosi anni in una serie B combattiva e dal tasso tecnico comparabile, permettetemi, ad un’odierna Premier League.
Dopo un girone d’andata che mette a dura prova coronarie e pazienza della pepata tifoseria biancazzurra, la Fidelis si rende protagonista di un esaltante girone di ritorno rincorrendo una salvezza che parrebbe meritata. Ma in quella calda domenica l’agognata salvezza, ormai non tanto così platonica, incrocia una promozione da conquistare, Sì, perché signori miei, in quella calda domenica al Degli Ulivi si presenta il Napoli, desideroso di risalire il prima possibile per ridare lustro ad un decennio iniziato in gloria con uno scudetto e continuato seguendo un canovaccio simile a quello inizio 2000 della Fidelis, cioè retrocessioni e cambi di proprietà.
Al “Degli Ulivi” va in scena la classica partita maschia, tipica di una finale di stagione che richiede una ferrea resistenza psicologica per via di un obiettivo non ancora raggiunto da ambo le parti. Da una parte si lotta per sopravvivere, con in mente ancora il “we are the Champions“ che accompagna la bordata di Quaranta. Dall’altra parte si lotta per tornar a rivivere la Serie A, seppur con le foto ormai sbiadite di Diego sulla parete dello spogliatoio, consapevoli di un passato che difficilmente potrà ripetersi. Insomma, obiettivi antipodici, ma identiche paure da gestire nello spogliatoio ed identica tensione agonistica. E quindi bisogna lottare, sgomitare, ma anche non cedere alle provocazioni. In campo si palesa il divario tecnico tra le due formazioni. I partenopei, desiderosi di chiudere i conti anzitempo, premono alla ricerca di un vantaggio che non arriva, contro una Fidelis saggiamente arroccata in difesa e decisa solo a sfruttare soluzioni dalla distanza. Stefan, spauracchio degli andriesi, come da copione, la mette dentro, confermando le paure dei pugliesi. Difatti nella ripresa trafigge un giovane Lupatelli, autentico baluardo destinato in futuro a ben più importanti scenari, e pareggiando l’iniziale vantaggio di Florijancic, che allo scadere del primo tempo trafigge Mondini che difese la porta della Fidelis negli anni successivi la prima storica promozione in serie B. I pugliesi si riportano in vantaggio nel finale con un rigore trasformato da Tudisco su invenzione di Paco Soares, dando vigore alle speranze di una Fidelis destinata all’amarissima beffa di Terni e rallentando la corsa del Napoli verso la promozione.
Ma la brezza marina che giunge dal Golfo di Napoli giova alla vena realizzativa del bomber altoatesino, che l’anno seguente ritrova in panca Novellino, suo pigmalione già ai tempi del Venezia e contribuisce alla promozione scrivendo 22 volte il suo nome sul tabellino, record battuto anni dopo da un tale di nome Cavani. Schwoch conferma la sua fama di realizzatore implacabile anche in maglia granata e vicentina, smentendo chi lo ritiene scarico e a fine carriera. Gli anni avanzano, il vecchio leone reduce da mille battaglie non molla, la zazzera è sempre lì in area di rigore, per ribadire la propensione al gol di questo Sansone della serie B, zittendo “alla Batigol” – si somigliano pure – malelingue e carta d’identità. Solo gli infortuni fermeranno Stefan che chiuderà la carriera con 260 reti in 682 presenze.

Numeri importanti, a dispetto di un fisico certamente non da granatiere, e con quell’amaro retrogusto di quei soli due gol nella massima serie. “Soli” due gol spiegabili certamente dalle “illogiche logiche” di mercato. Guardando i suoi gol, taluni suoi spunti, e ricordando un aforisma di Bakunin (”La rivoluzione è sempre per tre quarti fantasia e per un quarto realtà”), si potrebbe pensare che per fare uno Schwoch basterebbero analoghe percentuali, distribuite tra Inzaghi e Batistuta. O in alternativa Crespo e Montella. Decidete voi a chi spetta la percentuale maggiore.

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