E allora lasciatemi incollare la citazione che, per sintesi, senza sacrificarne dettagli e ricchezza di contenuto gli anni non hanno mai rimosso dalla mia mente: “Baresi II è dotato di uno stile unico, prepotente, imperioso, talora spietato. Si getta sul pallone come una belva: e se per un caso dannato non lo coglie, salvi il buon Dio chi ne è in possesso! Esce dopo un anticipo atteggiandosi a mosse di virile bellezza gladiatoria. Stacca bene, comanda meglio in regia: avanza in una sequenza di falcate non meno piacenti che energiche: avesse anche la legnata del gol, sarebbe il massimo mai visto sulla terra con il brasiliano Mauro, battitore libero del Santos e della nazionale brasiliana 1962″. Così un flemmatico Gianni Brera, sempre a metà strada tra il diplomatico e il tagliente, descriveva un Franco Baresi ormai bandiera di un Milan “straordinèrio” destinato a scrivere pagine memorabili del calcio italiano sotto la maniacale guida del guru di Fusignano.
Ma le bacheche non sono fatte solo di teche e coppe. La bacheca più bella è la memoria dei tifosi, dove non ci sono coppe, ma istantanee che nessuna diavoleria elettronica moderna potrà mai riprodurre fedelmente. Lui correva, sgomitava, sudava e segnava. E noi mettevamo in memoria, arricchendo la sua bacheca da calciatore e la nostra da tifosi.Ricordo di una primavera del 1994, assistetti ad una premiazione per gli studenti che avevano conseguito risultati eccellenti ai Giochi della Gioventù. Solite foto di rito con professori, consegne di medaglie e consueto barbosissimo discorso di autorità politiche locali. Silenzio obbligato, pena una nota al momento del ritorno in aula, a termine dell’altrettanto consueto cazziatòne. Il silenzio si interruppe, ma la nota non la beccò nessuno. I colpevoli del brusco passaggio dal silenzio monacale al fragore da Curva Nord furono individuati in Roberto Ripa e Raffaele Quaranta. Maglia blu notte di rappresentanza Pienne, una banca locale come sponsor ufficiale e sorrisi distribuiti quasi come gli 80 euro di qualche toscano anni dopo. Non pareva vero di vederli lì vicini a noi, imberbi appassionati di “A tutta B”, una sorta di Domenica Sportiva ancor più popolare. Arrivarono nell’atrio di questa scuola media della periferia andriese, quasi fossero due insegnanti di Educazione Fisica, sorridenti e gentili con noi ragazzini desiderosi di autografi su quaderni dove abbondavano esercizi dallo svolgimento dubbio e voti da nascondere a casa come latitanti. I sorrisi e le pacche si sprecavano con la salvezza oramai acquisita, l’inchiostro non era stato ancora soppiantato da tasti, reali o virtuali. Il touchscreen era ancora qualche diavoleria relegata nella vulcanica mente di ricercatori in California. Non era ancora tempo di sbrigativi selfie e smartphone, ma la loro disponibilità e pazienza nel firmare autografi senza alcun divismo rimase impressa. Non storcano il naso coloro che leggono dei miei paragoni tra Raffaele e monumenti del calcio mondiale. Bacheche diverse non sono sinonimo di qualità tecniche ed umane differenti. Raffaele da Poggiardo non si sarà mai fregiato di tricolori, non avrà mai scambiato la sua maglia col Pibe de Oro, non ha mai pianto a dirotto sotto il sole cocente della California per un penalty sbagliato, ma la sua sapienza tattica, umiltà, le suddette bordate e la dedizione al lavoro lo parificano eccome alla risposta milanista al teutonico Beckenbauer ed al bianconero Scirea.
Queste, tutte doti che gli saranno utili per la sua carriera di allenatore, che include anche un’esperienza presso l’Inter Campus, sulla scia di un inarrestabile processo di globalizzazione che ha travolto anche il calcio. Mi piace immaginarlo mentre insegna a ragazzini dal diverso corredo linguistico e genetico l’arte pallonara, non limitandosi a lavagnette e freccette, ma tramandando valori morali ed impartendo lezioni di vita. Un professore, e che professore.