RAFFAELE QUARANTA, IL CAPITANO SILENZIOSO

Non mi è mai piaciuto copiare ed incollare citazioni, seguendo una mania ormai diffusa sul web, come se ci volesse appropriare della citazione stessa in virtù del solo adopero. Tuttavia, devo ammettere che queste sovente paiono congeniali quando mi cimento nel dipingere i miei ricordi legati ai trascorsi pallonari.
E allora lasciatemi incollare la citazione che, per sintesi, senza sacrificarne dettagli e ricchezza di contenuto gli anni non hanno mai rimosso dalla mia mente: “Baresi II è dotato di uno stile unico, prepotente, imperioso, talora spietato. Si getta sul pallone come una belva: e se per un caso dannato non lo coglie, salvi il buon Dio chi ne è in possesso! Esce dopo un anticipo atteggiandosi a mosse di virile bellezza gladiatoria. Stacca bene, comanda meglio in regia: avanza in una sequenza di falcate non meno piacenti che energiche: avesse anche la legnata del gol, sarebbe il massimo mai visto sulla terra con il brasiliano Mauro, battitore libero del Santos e della nazionale brasiliana 1962″. Così un flemmatico Gianni Brera, sempre a metà strada tra il diplomatico e il tagliente, descriveva un Franco Baresi ormai bandiera di un Milan “straordinèrio” destinato a scrivere pagine memorabili del calcio italiano sotto la maniacale guida del guru di Fusignano.
Sarà che oggi ci è presa la manìa della Nostalgia, delle bandiere, del “calcio che non c’è più”, delle maglie con un solo sponsor ufficiale e senza nome del calciatore stampato sul retro, ma questo mini panegirico del Kaiser Franz da Travagliato pare pensato apposta per il campione di cui oggi ne ricorderò le gesta.
Gesta caratterizzate anche da quella legnata del gol assente nel repertorio del leggendario numero 6 rossonero, e rimproverata bonariamente dalla memorabile penna pavese. Sissignore, perché basta guardare il bolide scagliato da distanza siderale in un Pescara – Fidelis Andria del 24 ottobre 1993, per capire che il nome di Raffaele Quaranta non sarebbe fuori luogo se fosse sovrascritto a quello di Baresi II. Tranquillo caro lettore, non ho certo dimenticato l’altra legnata che ha regalato la prima promozione in Serie B. Probabilmente quella bordata regalò anni di vita in più ad attempati tifosi del Leone o forse ne tolse altri, per la troppa emozione scaturita da quella prodezza. E l’unica macchia, in una carriera tinta di azzurro federiciano, che gli si può attribuire è un rigore calciato e realizzato proprio contro la sua amata Fidelis vestendo la maglia del Casarano. Peccatucci che un tifoso saggio può perdonargli. Con le sue bordate, frutto di innate capacità balistiche connubio perfetto di dionisiaca potenza ed apollinea precisione – Nietzsche non si disturberà mica – rassicurava chi dalle gradinate o da una radiolina a pile sul tavolino dopo la consueta abbuffata domenicale seguiva una Fidelis che iniziava timidamente a farsi largo nel calcio che conta. Avesse avuto anche la virulenta progressione con palla al piede tra mediana e trequarti, non avrei esitato un attimo ad azzardare paragoni con Gunther Netzer, il biondone mezzo hippy della Nazionale tedesca campione del mondo e d’Europa degli anni Settanta.
L’età avanza, i ricordi sbiadiscono, ma le emozioni sono sempre lì, relegate in angoli reconditi della memoria. Basta solo rispolverare la mente per rivedere un capitano umile e pronto a dar battaglia, in un afoso campo del Sud dove il sole picchia come un martello o in uggiosi pomeriggi in Val Padana, nella speranza di raccogliere punticini utili per la salvezza. Raffaele ha rappresentato davvero l’icona di un calcio di provincia fatto di attaccamento alla maglia e di senso di responsabilità e mi piace pensare che la sua indole da capitano silenzioso di poche, ma efficaci, parole lo avrebbero risparmiato dal frastuono dei social network. Non è un caso che con lui in mediana, mentre intorno gli si alternavano goleador e difese o colleghi di reparto, la Fidelis Andria abbia trascorso gli anni più belli della sua storia, con lui faro – o diga all’occorrenza – di centrocampo. Sì, un faro, silenzioso e illuminante, quasi volesse rassicurare tifosi e compagni che la strada imboccata era quella giusta, sebbene irta di ostacoli e percorsi tortuosi con lo strapiombo della retrocessione sempre a fianco. Ma con lui quella Fidelis non precipitò mai nel burrone della C1. Arrivò nella città federiciana dopo la classica gavetta nelle serie minori, dove si distinse subito per come si muoveva in campo, leggendo il gioco un secondo prima degli altri. Doti alle quali si aggiungeva una ferrea pulizia morale.

Ma le bacheche non sono fatte solo di teche e coppe. La bacheca più bella è la memoria dei tifosi, dove non ci sono coppe, ma istantanee che nessuna diavoleria elettronica moderna potrà mai riprodurre fedelmente. Lui correva, sgomitava, sudava e segnava. E noi mettevamo in memoria, arricchendo la sua bacheca da calciatore e la nostra da tifosi.Ricordo di una primavera del 1994, assistetti ad una premiazione per gli studenti che avevano conseguito risultati eccellenti ai Giochi della Gioventù. Solite foto di rito con professori, consegne di medaglie e consueto barbosissimo discorso di autorità politiche locali. Silenzio obbligato, pena una nota al momento del ritorno in aula, a termine dell’altrettanto consueto cazziatòne. Il silenzio si interruppe, ma la nota non la beccò nessuno. I colpevoli del brusco passaggio dal silenzio monacale al fragore da Curva Nord furono individuati in Roberto Ripa e Raffaele Quaranta. Maglia blu notte di rappresentanza Pienne, una banca locale come sponsor ufficiale e sorrisi distribuiti quasi come gli 80 euro di qualche toscano anni dopo. Non pareva vero di vederli lì vicini a noi, imberbi appassionati di “A tutta B”, una sorta di Domenica Sportiva ancor più popolare. Arrivarono nell’atrio di questa scuola media della periferia andriese, quasi fossero due insegnanti di Educazione Fisica, sorridenti e gentili con noi ragazzini desiderosi di autografi su quaderni dove abbondavano esercizi dallo svolgimento dubbio e voti da nascondere a casa come latitanti. I sorrisi e le pacche si sprecavano con la salvezza oramai acquisita, l’inchiostro non era stato ancora soppiantato da tasti, reali o virtuali. Il touchscreen era ancora qualche diavoleria relegata nella vulcanica mente di ricercatori in California. Non era ancora tempo di sbrigativi selfie e smartphone, ma la loro disponibilità e pazienza nel firmare autografi senza alcun divismo rimase impressa. Non storcano il naso coloro che leggono dei miei paragoni tra Raffaele e monumenti del calcio mondiale. Bacheche diverse non sono sinonimo di qualità tecniche ed umane differenti. Raffaele da Poggiardo non si sarà mai fregiato di tricolori, non avrà mai scambiato la sua maglia col Pibe de Oro, non ha mai pianto a dirotto sotto il sole cocente della California per un penalty sbagliato, ma la sua sapienza tattica, umiltà, le suddette bordate e la dedizione al lavoro lo parificano eccome alla risposta milanista al teutonico Beckenbauer ed al bianconero Scirea.

Queste, tutte doti che gli saranno utili per la sua carriera di allenatore, che include anche un’esperienza presso l’Inter Campus, sulla scia di un inarrestabile processo di globalizzazione che ha travolto anche il calcio. Mi piace immaginarlo mentre insegna a ragazzini dal diverso corredo linguistico e genetico l’arte pallonara, non limitandosi a lavagnette e freccette, ma tramandando valori morali ed impartendo lezioni di vita. Un professore, e che professore.

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