Ad ogni notizia ufficiale o meno di calciomercato, ad ogni fotogramma televisivo, ad ogni parola sillabata o ricostruita si scatenano tutti: tifosi, proprietà calcistiche, storici del pallone e comunque più o meno chiunque. Questo soprattutto quando si parla di Bandiere. Ora, la definizione di bandiera nel calcio è alquanto semplice, ovvero, colui che veste la stessa maglia per parecchie stagioni e che spesso coincide anche con l’indossare la fascia di capitano.
Stiamo superando un passaggio generazionale, non solo in Italia, sull’abbandono di calciatori simbolo e con un calcio mosso da molti soldi spesso di dubbia provenienza che comunque alimentano un sistema incredibile di interessi finanziari, politici e di passione, e, proprio quest’ultima sembra il filo rosso che mantiene il sistema appetibile e comunque in piedi e vale sempre la pena ricordarlo.
Se parliamo dei “grandi”, abbiamo lasciato alle nostre spalle Maldini, Zanetti, Del Piero e Totti e ci ritroviamo con un vuoto di identità e con una mancanza di simboli di cui abbiamo bisogno e di cui il racconto del calcio si nutre. Ma bisogna anche raccontarsi che spesso queste bandiere hanno coinciso con tutto quello detto in precedenza ma hanno anche rappresentato una sorta di leadership tecnica che accompagnava lo status di bandiera e simbolo dei colori e della terra che rappresentavano. Ma non sempre è cosi, perché capita che si possa non essere leader tecnici, ovvero i più forti, ma si è leader di agonismo e di tenuta della maglia che si porta addosso: basti pensare a Daniele Conti del Cagliari o Jamie Carragher del Liverpool spesso offuscato dal talento immenso di Steve Gerrard. Anche la Fidelis Andria ha le sue bandiere, diverse tra loro, da Angelo Carpineta leader anche nelle reti, a Raffaele Quaranta e Roberto Cappellacci leader del gioco centrale e Sabino Martiradonna andriese purosangue.
Ma spesso le bandiere si confondono, senza volerlo, con chi gioca con la maglia della propria città. Perché in questa caso esiste una differenza netta. Giocare per la propria città senza esserne bandiera e magari aspirandovi cambia la prospettiva non di chi guarda ma probabilmente di chi la vive. Si può immaginare che si senta più pressione, si senta il dovere di far coincidere il proprio operato con le aspettative di bandiera da parte dei tifosi, magari hai degli amici – più o meno sinceri – che pagano il biglietto e sono lì in curva a sostenerti o dirtene di tutti i colori. È dura. Tutto cambia, perché se sei bandiera sei simbolo venerato e rispettato a prescindere e dove nel caso esisterebbe solo la colpa qualora si venga traditi per soldi e per un’altra squadra.
Basti pensare a Wayne Rooney cresciuto nelle giovanili dell’Everton, esordio in prima squadra con quel gol meraviglioso a David Seaman dell’Arsenal e poi venduto al Manchester United e divenuto bandiera dei Red Devils sotto la guida di Sir Alex Ferguson: ora il vecchio Wonder Boy ritorna a casa non da bandiera ma da calciatore che deve ricostruire un rapporto tradito nella sua vecchia e prima casa quella blu dell’altra Liverpool.
Facile fare parallelismi pallonari, ma a differenza di Rooney Riccardo Lattanzio non ha da perdonarsi nulla, anzi ha dato alla maglia blu – e bianca – tanto e probabilmente, senza controprova, avrebbe meritato di continuare con la Fidelis nel calcio professionistico in Serie C dopo il trionfo da assoluto protagonista in Serie D. Ed è proprio in questa categoria che Riccardo si è ritagliato lo spazio di calciatore importante ottenendo promozioni e molti gol anche con il Venezia e lo scorso campionato con il Bisceglie. Assieme al patron Montemurro ha scelto di ritornare a casa e tralasciamo tutta l’antologia calcistica sui ritorni e le minestre riscaldate, perchè la Fidelis aveva ed ha bisogno delle sue qualità tecniche e del suo attaccamento alla maglia e alla terra che non ha mai definito come un peso ma come una forza di emozioni. In un intervista televisiva, mentre guardava i suoi 14 gol di quella stagione trionfante sentiva in sottofondo il suo nome ripetuto dallo speaker e urlato con gioia ed appartenenza dai tifosi, diceva :”Quando sento gridare il mio nome è una cosa…” si blocca e i suoi occhi parlano di quell’urlo come un’emozione difficile da descrivere ed un risarcimento al peso che si porta ad essere profeta in patria e non bandiera – che ci auguriamo diventi.
Perché giocare in casa è meglio, ma giocare a casa è una cosa….
Cofondatore del blog . Mi innamorai del calcio una sera del 20 Maggio 1992. Appassionato di sport, delle sue storie e soprattutto del pretesto con cui lo si usa per parlare di qualsiasi cosa. Ma faccio tutt’altro nella vita.