L’IDENTITÁ E LA MAGLIA

Oscar Washington Tabarez dice che il calcio è una scusa eccellente per parlare di cose molto più importanti del calcio stesso.
Spesso il calcio è pretesto, un pretesto per dire qualsiasi cosa: parlare della storia, della politica, dei costumi e della società in genere.Ma va ricordato che questo sport possiede le sue peculiarità più importanti insite nel suo DNA e nella sua struttura di fenomeno tecnico, economico ed infine sociale. Una base, un minimo comune denominatore che è proprio del calcio professionistico e dilettantistico che porta con se la chiara posizione di questo sport all’interno di una discussione fatta di cronache, statistiche, dettami ed evoluzioni tecniche e purtroppo – o per fortuna – danari.

La questione coinvolge tutti gli attori della vita vissuta nel calcio e per il calcio. Dai famosi “Bar dello Sport” che non si animano solo il Lunedì mattina sino alle bacheche virtuali dei social network. Si parla di tecnica: i terzini devo andare sul fondo e crossare o essere bloccati alternandosi con il collega della fascia opposta, il volante davanti alla difesa o due uomini che formano la diga a centrocampo, il “Dieci” e la fantasia al potere, il “Nove” che sia vero o falso, veloce o robusto. Quello scarso o fenomeno, l’altro ha la ragazza figa o meno. Ognuno deve dire la sua non in nome della sacra democrazia, ma perché ognuno sa di saperne qualcosa, spesso con grossa convinzione, perché è argomento geneticamente stabile nei nostri cromosomi e forse nell’antropologia di un popolo.

Si parla di comunicazione, di chi è timone della squadra, l’allenatore come si rivolge ai mass-media e come comunica nel sacro spogliatoio. Cosa arriva? Cosa avrà voluto dire? Ancora, i portavoce delle società che danno spiegazioni o fanno proclami per volare basso o alto, rassicurare o rasserenare gli animi, togliere pressioni o chiedere qualcosa a qualcuno di indefinibile che li protegga dagli ultimi “danni” arbitrali subiti. Il tutto finisce con aria che passa tra le corde vocali di milioni di persone che le masticano, le sputano e le fanno proprie o le contestano nella loro intimità pallonara quale cosa importante e vitale nella propria vita.

Come si fa a costruire una squadra, mantenerla e farla resistere nel tempo se non con i soldi. Con loro si fa tutto o spesso si sopravvive, anzi si fanno sopravvivere storie di Club più o meno grandi e più o meno storici. Si comprano e si vendono calciatori, contratti da rinnovare o far scadere. Le sirene dei top club, del blasone, del “progetto”, della città vivibile o dei soldi. Allenatori icone che portano sponsor per le squadre. Poi ci sono i patron, le cordate senza le quali il calcio non si farebbe: sono loro che permettono la tenuta delle società assieme ai tifosi.

Qualcuno dei più romantici si affiderebbe e ti risponderebbe più o meno de visu che esiste l’azionariato popolare rappresentato da esempi di grandi club spagnoli come il Barcellona, Reala Madrid ed Athletic Bilbao o come l’esperienza britannica del Fc United of Manchester fondato nel 2005, che milita nella sesta categoria inglese, da alcuni tifosi – ora gestori e proprietari –  contrari all’acquisizione del Manchester United da parte dell’imprenditore statunitense Malcolm Glazer.

Poi le società si strutturano, con l’area tecnica, il marketing, l’impresa sociale ed il settore giovanile. Fanno scelte tecniche, di costume e di rappresentanza di città o di interi territori. Vendono il loro marchio, qualcuno anche negli algoritmi della finanza. Costruiscono stadi con gli sponsor, o a malapena ne ricevono uno dall’amministrazione comunale di turno. Si rappresentano politicamente nelle varie leghe per parlare di presente e futuro del calcio e dividersi, si fa per dire, i compiti. Il cosiddetto calcio come “azienda” per poter sopravvivere, pagare gli stipendi e magari raggiungere degli obiettivi. E ci sono società che con serietà il progetto lo costruiscono.

Detto tutto questo, c’è una cosa che non è contrattabile. Un aspetto che rende la società di calcio, chi la racconta e chi la vive un fenomeno diverso da gli altri: l’identità. Quest’ultima è rappresentata dalla maglia e dai suoi colori che avranno o meno un senso o appartengono al caso ma di sicuro hanno un valore. Un valore che non è economico, perché chiunque veda il calcio con serietà comprenderebbe quanto l’identità e la maglia siano questioni da difendere e rispettare e che debbano sia le società nei propri atti notarili e nella comunicazione, i giocatori e dirigenti nei propri contratti e sia chi compra un biglietto per lo stadio tenere a mente e rispettarle come fossero leggi dello Stato.

Legge non scritta ma asse portante di un mondo ove il sistema “pianeta” sta inglobando e globalizzando anche lo spirito e l’orgoglio dei propri colori, perché è pur vero che spesso le società possano avere “elementi” poco chiari ma è anche vero che il popolo del pallone spesso è legato ai risultati positivi della propria squadra. Si possono avere stadi pieni in Eccellenza perché primi in classifica o stadi semivuoti in Serie B se si è ultimi.

Perché l’identità e la maglia rappresentano la terra che abbiamo sotto i piedi, il clima che respiriamo, le tradizioni che manteniamo e la diversità che accogliamo: tutti devono rispettarle ed insegnare a rispettarle perché così si avrà memoria e futuro allo stesso tempo.

Sosteniamole, sempre, perché potremmo avere poca qualità tecnica, pochi soldi e statistiche scarsamente affascinanti ma di sicuro avremmo l’orgoglio di appartenere a qualcosa che in fondo ci appartiene.

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